PARTNERSHIP

Nell’articolo precedente abbiamo visto chiaramente che nessuno può farcela da solo.

Questo è vero in ogni sfida della nostra vita, nelle piccole personali, come ancor più in quella globale che è la sfida della sostenibilità (forse la più complessa che ci sia mai stata).

Il tema del partenariato è quindi cruciale per affrontare in modo vincente e integrato le questioni poste finora. Per il nostro ragionamento, però, è anche buono recuperare il significato della parola inglese partner, la cui traduzione immediata come “compagno” è troppo limitante.

Il termine viene dal latino pàrte, che ha due declinazioni: da un lato quella evidente di “porzione”, dall’altro quello di “conduttore” o “compimento”. Partnership è quindi quella alleanza di parti che guida e porta a compimento.

La questione del comando, quindi anche del potere, dell’autorità, della responsabilità ecc., è forse una delle più importanti di ogni ragionamento politico.

La parola “politica” trova origine nella città (polis) dell’Antica Grecia, perché lì abbiamo le prime regressioni importanti su questo tema e, soprattutto, perché nelle varie città greche è stata sperimentata praticamente ogni forma di governo.

Nello stesso momento sul suolo greco vi erano monarchie (Micene), diarchie (Sparta aveva due re insieme), aristocrazie (il governo dei migliori che poi spesso era timocrazia, il governo dei più ricchi), tirannidi, democrazie (Atene), etc.

Un po’ più lineare, invece, è la storia romana:

  • all’inizio era una monarchia, dalla mitica fondazione di Roma da parte di Romolo fino al 7° Re (509 a.C.);
  • poi una repubblica dalla cacciata di questo (Tarquinio il Superbo) fino al 27 d.C.;
  • quindi un impero da Augusto fino alla caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476.

Ma, attenzione: bisogna ricordare che a Oriente l’impero romano è proseguito per altri mille anni, fino al 1453, con la caduta di Costantinopoli (l’attuale Istanbul) sotto l’attacco ottomano.

Nei 1000 anni di Medioevo c’è stato di tutto (forse anche più che nell’Antica Grecia):

  • piccole comunità contadine autonome e autosufficienti come feudi e abbazie;
  • grandi strutture gerarchiche ordinate tramite il vassallaggio;
  • comuni liberi e indipendenti (a volte repubbliche, come le famose Repubbliche Marinare, a volte governate da vescovi, altre da aristocrazie);
  • e poi signorie, contee, marche, ducati, principati, regni;
  • infine, i due grandi lumi dell’epoca: impero e papato.

Pian piano, andando verso l’Età Moderna, assistiamo a una progressiva riduzione di questa complessità.

Tra la scoperta dell’America (1492) e la sconfitta di Napoleone con il conseguente Congresso di Vienna (1815), di tutte le forme politiche precedenti restano praticamente solo gli Stati.

Lo Stato è quell’organizzazione politica di un popolo all’interno di un certo territorio caratterizzato dal principio di sovranità (autonomia e pienezza del potere), per il quale nessuno dentro (comune, provincia, regione) o fuori (imperatore o papa) di esso può mettere bocca sulle sue decisioni. Inoltre, lo Stato moderno gode del monopolio legittimo della forza: non esistono quindi forze armate locali, gli unici corpi militari possono essere solo quelli statali (esercito, marina, polizia, ecc.).

Con l’Età Moderna quel che si verifica, quindi, è che lo Stato diventa l’unica realtà di potere e l’unica autorità ammessa. Solo lo Stato comanda, tutte le altre amministrazioni possibili devono unicamente eseguire (esempio: se il Governo decide una certa tassa o una campagna militare, ogni regione deve eseguire. Nel Medioevo non era così: il re doveva avere l’accordo delle realtà locali).

Gli anni a seguire, l’Età Contemporanea (che, se vogliamo, va da Napoleone a Mussolini, Hitler e Stalin), sono gli anni in cui lo Stato scopre e manifesta al massimo la propria forza.

In un primo momento ad extra: gli Stati europei per due secoli si rivolgono al mondo e, avendo già colonizzato le Americhe (Inglesi, Francesi, Spagnoli e Portoghesi), estendono il loro dominio all’Africa, all’Asia e all’Oceania.

Una volta sfogata la propria spinta espansionistica ovunque fosse possibile, arrivati ormai al ’900, le tensioni fra essi si scatenano in tutta la loro forza distruttiva nell’arco di una trentina d’anni.

Tra il 1914 e il 1946 l’Europa conduce il mondo in due Guerre Mondiali di dimensioni apocalittiche con milioni e milioni di vittime e devastazioni incalcolabili.

Finita questa fase, si inaugura un discreto periodo di pace-senza-pace. È la Guerra Fredda, durante la quale le due Super Potenze, USA e URSS (due Super Stati), si scontrano in una continua serie di micro-conflitti che fortunatamente non sfociarono mai in uno scontro diretto dall’esito potenzialmente definitivo: la Terza Guerra Mondiale (una guerra che sarebbe stata nucleare).

Nel 1989, con il crollo del Unione Sovietica, questo rischio è svanito. Ciò però NON significa che siamo fuori da ogni pericolo o che NON ci siano guerre (più o meno visibili, conosciute o esplicite).

La fine del Comunismo Sovietico (quello cinese esiste ancora, ma non è espansionistico dal punto di vista politico) ha fatto scomparire “l’altra opzione”. Oltre al modello USA non c’è altro. La globalizzazione è infatti l’estensione del capitalismo americano all’intero globo.

Questo non vuol dire che gli Stati Uniti siano i padroni del mondo in senso assoluto: esistono molte forze in campo (Cina, Russia, India, Brasile ecc., per non parlare di tutti i paesi musulmani produttori di petrolio), ma nessuna di queste ha elaborato un modello di sviluppo economico e culturale alternativo a quello americano.

Quel che possiamo notare è, al massimo, un correttivo di questo in chiave locale, per il quale la tradizione culturale di ogni singolo paese riesce a sopravvivere sul piano territoriale, ma alzando il livello certamente è molto meno indulgente.

Oltre a ciò, bisogna riconoscere, ormai, che pochi gruppi di potere transnazionali (quindi non legati necessariamente a questo o quello Stato) hanno raggiunto una quantità di ricchezza tale da superare da soli quella di intere nazioni. Questo in pratica significa che pochi privati detengono la maggior parte della disponibilità economica.

Poche centinaia di persone gestiscono più ricchezza di quanta non sia a disposizione ai restanti 7 miliardi. Non è per errore che si parli spesso, a riguardo, di tecnocrazia finanziaria.

Gli oligarchi hanno sempre comandato sui molti. Questa è una legge della politica. Stupisce solo fino a un certo punto. Al di là di quanto possa essere considerato giusto un modello del genere, ci si domanda: ma è almeno sostenibile? Perché se questa élite stesse governando il mondo alla perfezione, alla fin fine forse potrebbe anche essere accettabile.

Tuttavia, la risposta è NO. Il modello di sviluppo che ci ha condotto fino a questo punto è assolutamente insostenibile sotto ogni punto di vista: ambientale, sociale ed etico. Per questo l’Assemblea delle Nazioni Unite (che è il luogo di raccordo di tutti gli Stati del mondo) parla di partnership come obiettivo per lo Sviluppo Sostenibile.

La questione però resta: chi dovrebbe fare questi accordi? Che contenuti dovrebbero avere? Come sarebbero strutturati? Tutte queste domande si sintetizzano in una: che forma politica potrà portare a un mondo sostenibile?

Il mondo può essere ordinato solo dalle fondamenta. Come gli Stati esistono a vantaggio delle comunità locali, allo stesso modo l’ONU esiste a vantaggio degli Stati.

Non serve un governo mondiale che controlli dall’alto ogni questione: ambiente, società, diritti, sono diversi per ogni paese.

Se guardiamo alla storia, poi, ogni volta che qualcuno ha cercato di governare su tutti, ciò ha sempre causato violenze e discriminazioni. L’unico modo per rispettare la diversità di ciascuno è lasciare la libertà dei popoli di autodeterminarsi, senza imporre modelli economici o culturali dall’alto.

Solo così ci sarà il rispetto dei diritti in tutto il mondo, l’armonia, la pace, la sostenibilità.

D’altronde, l’alternativa è anacronistica, porterebbe a una dittatura orwelliana e a rivolte continue: sarebbe un salto indietro.

Ancora una volta, anche su questo tema, ci ritroviamo di fronte a una situazione di stallo dualistica.

Da un lato il sistema globalizzato già in essere, massificante e mondialista, per il quale il mondo è un insieme di individui indistinti, senza cultura, tradizione, né identità, che dovrebbe essere governato dall’alto tramite delle regole, con la pretesa di perfezione, che devono essere eseguite da tutti.

Dall’altro c’è l’opzione no-global, che ha preso l’inedita caratterizzazione politica del cosiddetto sovranismo, per il quale gli Stati dovrebbero tornare all’autonomia di inizio Novecento, per poter avere totale libertà e garantire così la piena sovranità ai propri cittadini, anche di fronte alle nuove sfide globali.

Come si nota, siamo ancora di fronte al solito castello di carte “uguaglianza VS libertà”. Si può uscire fuori da questa dialettica asfissiante e ripetitiva, ancora una volta rifacendoci al terzo valore: la fraternità.

Come è vero tra persone, così fra paesi: due stati non sono liberi tra loro, hanno invece molti vincoli e responsabilità reciproche, ma tantomeno sono uguali. Devono essere uniti da un rapporto di fratellanza, dove il rispetto dell’identità dell’altro non è disinteresse né invadenza, ma attenzione e cura.

Anche qui le parole chiave sono solidarietà e sussidiarietà. Fra i paesi deve vigere una relazione solidale, una forte unità verso il prossimo che costituisca una rete globale. Le grandi realtà sovranazionali, invece, dovrebbero agire ispirate dal principio di sussidiarietà, per il quale il loro intervento si esprime come un sussidio (aiuto) e non come una sostituzione nei confronti degli Stati.

Tutti i grandi attori mondiali, pubblici e privati, dovrebbero agire in una logica organicista, come fossero parti diverse di uno stesso corpo, pensando in termini globali ma agendo in termini locali.